mercoledì 28 dicembre 2011

Gli spazzolini, le radio e i miei 8 anni.

Li ho contati sono otto. Otto spazzolini sparsi per il Norditalia.
Forse il nuovo anno dovrebbe cominciare col buttarne via almeno un paio. Anche perché, si sa, dopo un mese gli spazzolini andrebbero buttati sempre, diventano covi di batteri. Magari in ufficio ne tengo uno solo.
L'A31 mi ha permesso di fare anche un'altra considerazione. Non doveva esistere una versione in italiano di Moonlight Shadow. Perché? Perché l'hanno fatto?
Era tanto che non ascoltavo la radio, quella bieca che puoi ascoltare solo mentre guidi ed è buio e soprattutto non hai nessun cd in macchina. Quella con continui quiz dove vinci cappellini, orologi e magliette brandizzate dalla radio o se ti va peggio i biglietti per il concerto di Gigi d'Alessio a Oristano o per l'Aquafun.
Però sbrigatevi perché il premio è per il più veloce. E per una volta fottetevene se il numero è sempre un wind, spendeteli questi 15 centesimi.
Io lo vinsi il cappellino alla pescatora, nero. Il logo era in rilievo ma si nascondeva bene. Lo dimenticai su un autobus o su un treno, sapevo che non avrei dovuto andarci lì dove dovevo andare.
La voce mi tremava e non dedicai la mia vittoria a nessuno. Avevo 13 anni e non avevo nessuno da salutare.
Per non parlare di tutte le volte in cui, qualche anno più tardi, richiesi sempre la stessa canzone a Radio Italia Solo Musica Italiana. Interi pomeriggi rovinati dalla peggiore musica italiana per cercare di registrare quella canzone. Bè non potevo certo comprarmi tutto l'album di Gatto Panceri per sentire una canzone. Un album che per altro di sicuro non tengono a Ricordi, perché chi se ne vuole ricordare? E poi nemmeno l'aveva dedicata a me, ma le ricordava la sua ex. Momenti davvero bassi, vabbè.
Stasera era così buio che se avessi avuto bisogno di leggere i cartelli mi sarei persa. Ma in fondo avrei voluto perdermi, prendere un'uscita a caso, fermarmi in un motel, di quelli con il cartello zimmer frei/camere libere. Pura retorica perché nessuno si immagina che ci possa essere il tutto esaurito, anzi ci si chiede che ci faccia quel motel lì. Forse Hitchcock è passato nel Pedemonte.
Sceglierei quello piazzato in curva e scenderei per chiedere "dove sono?". Mi fermerei a mangiare il minestrone e il formaggio, dormirei per poi svegliarmi senza patente e con soli 8 anni.
Fatemi tornare ai miei otto anni per un giorno. Perché voglio davvero nascondermi dietro le lenzuola stese e scambiare le colline per montagne e lo stagno per un lago, voglio ricordarmi tutto più grande e credere che andrò dappertutto e potrò fare qualunque cosa. Anche ricordarmi come si cucina dopo anni.

domenica 25 dicembre 2011

Natale, si mangia.

Mi sono vestita bene. Mi sono messa il profumo, la matita. Mi sono fatta le labbra più rosse.
Ho messo il vestito nero, quello nuovo. Facevo anche finta mi salisse un po'.
Volevo mi vedessi, anche se non c'eri.
Invece ho deliziato solo gli occhi di mia madre, che immancabilmente ha scattato foto con il suo cellulare. Un Nokia del cazzo dove riesco ad assomigliare nello stesso scatto a Belen e alla Montalcini, dove la Croazia può essere il lago d'Orta e lo stagno di Hide Park, insieme. Ma lei scatta, con l'occhio che luccica e quel suono fragoroso in differita. Si sente due minuti dopo, quando è già nella borsa, sembra quella pubblicità della Durex.
Bè, io non volevo essere bella.
Mi sono preparata con cura, ma non me ne fregava un cazzo che fosse un giorno di festa. Non c'era nessuna festa, non c'era nessun regalo. Era un altro Natale.
Vestirsi bene per sedersi a un tavolo a mangiare un pennuto castrato e lessato con delle carote. A pensarci viene una tristezza infinita. Mia nonna che quando le dicevo che il golfino le stava bene mi rispondeva che c'era ancora panettone e che le avevano tolto le tonsille quando aveva nove anni.
"Nonna oggi sembri più giovane." Sì, non dimostrava 96 anni, forse solo 83.
C'è un momento in cui non dimostri più una certa età, ma solo la tua vecchiaia. Sei solo vecchio, non importa quanto.
E i vecchi hanno qualcosa di sempre uguale. Le rughe, la poltrona, la lana ruvida, il fazzoletto e il silenzio. Forse davvero non pensano più. Il silenzio lo conoscono solo loro.
Altro che meditazione e ascesi, basta far passare la vita per conoscere il vuoto.
Mi muovevo con grazia, nella dose limitata che mi è stata concessa dalla natura, accavallavo le gambe, mi sistemavo il vestito lisciandomelo sul culo con le mani, senza essere volgare.
Per nessuno dei presenti. Io volevo essere tua.

sabato 24 dicembre 2011

Risparmiare non è un buon proposito.

Ore 10.30, vigilia di Natale.
Ho già dovuto sentire la filosofia dell'idraulico e le sue gesta di expompiere, incartare pacchetti senza amore e senza nastro, mangiare un panettone ricoperto di crosta di nocciole, leggere status colanti muco su Facebook, sentire mia madre reclamare la scopa elettrica. "La tieni tu vero?" Non vorrai mica lasciare la vecchia scopa elettrica alla ragazza con cui hai condiviso il letto per quasi sei anni. E mi chiedo quanto amore può suscitare una scopa elettrica? E quanta cattiveria?
Poche ore a casa sono state sufficienti a farmi capire che tutto il prossimo anno sarà impegnato a lottare contro le aspirazioni borghesi. Sarà una lotta dura e ricca di bassezze.
Lasciar marcire l'abbonamento a teatro - anche perché è l'abbonamento coppia - non iniziare con la crema antiage, smetterla con le scarpe da running, l'omeopata e i weekend a Santa Margherita Ligure. Oppure finalmente cedere, fare anche un altro abbonamento a teatro, comprarmi il piumino Moncler - borghese sì ma pur sempre parvenue, quindi non tenuta a sapere l'ortografia e la pronunica delle parole francesi - e tornare a Saint Moritz col trenino anche se mi ha fatto cagare. Trovarmi un monolocale tutto incastri di desain, con il soppalco e l'affaccio naviglio e pagarlo con quasi tutto lo stipendio, iniziare ad ascoltare musica jazz pur continuando a non capirci un cazzo e prendere il calice dallo stelo per non scaldare il vino. Forse anche farmi fare la manicure dalle russe. Già che ci sono potrei sforzarmi di avere un uomo, giusto per dire che se volessi potrei averlo. Deliri di onnipotenza ecco la vera essenza della borghesia.
Mia madre sta già preparando la tavola e sono le 11.30. E la carta igienica ha dei tulipani blu e la scritta mega e io non voglio pulirmi il culo con dei megatulipani blu.
E dopo anni c'ho voglia di comprarmi un dvd. Fanculo, oggi pomeriggio vado in videoteca.
L'unica cosa certa del futuro è che non voglio risparmiare, niente.

giovedì 22 dicembre 2011

Non me ne vado.

È da un po' che non scrivo.
Mi è bastato darmi alla conquista, alle nottate insonni e non perché ti cola in continuazione il naso, per perdere interesse in ogni altra cosa.
Basta tumblr, basta feed su feed, basta mangiare, pensare di cambiare lavoro o guardare le offerte ryanair. Basta.
Mi basta solo guardarti mentre ti stringo le gambe sotto il tavolo di un bar. Noi scegliamo sempre quelli più tristi con le tovaglie bruciate dalle sigarette e i menu plastificati, quelli dove mai nessuno si è baciato, figuriamoci due donne. Ti guardo e ascolto quello che dici, però mi rendo conto che non riesco proprio bene a fare tutte e due le cose insieme e sono più impegnata a guardarti. Però ti ascolto e tento di ricordarmi tutto. Ma non mi ricordo i libri che mi dici di leggere, né i film. Forse non voglio diventare una persona migliore e mi vergogno ad annotarmi le cose lì per lì.
Ma il resto me lo ricordo. Mi ricordo quando ti togli gli occhiali come cambia il tuo viso. Mi ricordo le piccole rughe che hai sulle guance e attorno agli occhi, forse i sorrisi ti sono costati molto.
E poi mi ricordo che quand'è successo non ho potuto guardarti in faccia perché la luce era spenta, allora me la sono immaginata. Ma credo sia molto più bella di così.
E pensare che quella lampada funzionava, avremmo solo dovuto attaccare la spina, ma nessuna delle due ci ha pensato.
Ogni mattina mi arriva la newsletter degli annunci di jobrapido, ma non me ne frega un cazzo. Chi si muove più da qui. A volte apro i link giusto per non sentirmi in colpa.
Web marketing assistant, social media specialist, editor. Non me ne vado, te l'ho detto, non me ne vado. Sappilo.




venerdì 2 dicembre 2011

You & Me.

Durante l'adolescenza la you&me è sempre stata sinonimo di maledizione, altro che risparmio.
Ci volevano mesi prima di decidere di investire un deca in una carta servizi per il cambio di numero. Mesi di interrogativi: Ma è davvero la persona giusta? Durerà?
La risposta ovviamente era no. Durava giusto giusto un mese dall'attivazione – sì perché dovevi anche aspettare 48 ore dopo aver sborsato – e in un mese e 48 ore quello che avevi creduto l'amore della tua vita si trasformava nella persona più brutta e senza senso.
E poi eri fottuto perché mica ce le avevi altre diecimila lire per cambiare il numero di nuovo. Avresti dovuto aspettare la prossima mancia della nonna, quella per i gelati, ma che delusione se avesse saputo come avresti investito quel sudato capitale.
Sì, sarebbe stato meglio mettere il numero della tua amica del cuore, anche se lei la chiamavi già gratis dal fisso. E poco importa se la tua sim card aveva bisogno di stabilità più di te, se non sei mai riuscito a garantirle niente.
In questi giorni ho scoperto però che forse la maledizione è finita. La You&Me non esiste più. Ora c'è solo il tuo numero preferito. Molto meno definitivo, ci sta che lo puoi cambiare. Ci sta pure che per un mese sia tua madre e quando si rompe la caldaia sia quello dell'idraulico. Ora ci sta tutto.

giovedì 1 dicembre 2011

La gioia delle vasche.

È il secondo giorno di fila che metto la sveglia per andare a nuotare la mattina presto. Ed è il secondo giorno di fila che mi sveglio alle 5 e la spengo.
Andare a nuotare prima del lavoro è stata un'esperienza talmente estatica che non la riesco a ripetere. Mi ha avvicinato all'assoluto.
Solo io e una vecchia signora nella corsia dell'andatura lenta. Tra le 8.45 e le 9 io sola.
Il nuoto aveva perso parte del suo fascino: l'alienazione. Non c'erano le signore dell'acquagym, non ho preso calci dalle rane della corsia veloce, né mi sono sentita pressare dalle bracciate a stile del natante dietro di me. Anche il vapore e il cloro sembravano dolci in quel martedì di pioggia battente.
In fondo quando mi getto a forza nell'acqua gelida so che è più uno sforzo psichico che una lotta al grasso superfluo e al torpore muscolare. In tutta questa rilassatezza non sono riuscita a risolvere il problema maggiore, cioè cosa pensare mentre nuoto.
Io proprio non capisco quelli che dicono che quando nuotano non pensano a niente, che nuotare gli libera la mente. Per me nuotare è una lezione di algebra.
Da quando mi tuffo, in modo piuttosto sgraziato, ma pur sempre di pancia – perché di far la figura della femmina che ha bisogno della scaletta proprio non mi va – comincio a contare e non finisco finché non rimetto le ciabatte ai piedi. Uno, uno, uno, uno... per tutta la prima vasca. Due, due, due, due per tutta la seconda, e poi tre, quattro, venti. Poi forse ci sta una pausa, ma sto cercando di lavorarci ed eliminarla. Avanti così.
Gli occhialini si appannano quando ancora sto nuotando a rana, l'acqua non è più azzurra e tutto diventa indefinito. Cerco di tenere un ritmo, inutilmente.
Eppure il nuoto è matematica. Dieci vasche a rana, dieci a stile. È ripetizione e quindi mortificazione. Penso che per rendere questa esperienza davvero sublime dovrei concedermi il lusso del costume intero, quello della Decathlon. La cuffia di silicone ce l'ho già, rosa.
Mi sono quasi convinta, domani ci vado. Allora ci vediamo alla Cozzi, prima o poi.

martedì 29 novembre 2011

Ho tolto i baffi.

Oggi era il giorno dell'estetista. Ma da quando ho fidelizzato con la Viviana questo ha cessato di essere un momento tremendo ed eternamente rinviabile. Perché so che lei non mi farà così male.
In realtà questo era solo il secondo tentativo, quindi aleggiava ancora il dubbio, ma in cuor mio sapevo che sarebbe andata bene. Appena l'ho vista ho capito che lei sarebbe diventata la MIA estetista.
Sì perché non è una di quelle che si stira i capelli, non ha le meches, non è troppo magra e non parla a macchinetta mentre io mostro bellamente le mie nudità più recondite. Anzi ha la tinta un po' strana, sorride e sembra ancora imbarazzarsi del mio imbarazzo. È perfetta. Soprattutto perché non mi fa quasi male.
Quindi oggi mi sono spinta oltre: inguine, ascella e pure baffetti, che conservavo integri da 26 anni, dei baffi fossile. Direi di non aggiungere altro, se non che non ho urlato, non ho pianto e non ho sanguinato eccessivamente.
Ma il post non finisce qui, perché andare dall'estetista mi ha suscitato riflessioni profonde.
Forse perché ho dovuto aspettare un quarto d'ora in una saletta dove una filippina stava facendo la pedicure a una donna incinta di sei mesi. Ma io dico, hai un pesante fardello che ti impedisce di guardare davanti a te – anche se in realtà il tuo futuro a quel punto lo vedi benissimo – e ti preoccupi di non avere pelle superflua sul calcagno del tuo piede destro o che lo smalto sia coprende ma più sul bianco che sul rosa? Mah. Mi sentivo molto a disagio. Sarà che il centro estetico sembra più un centro massaggi. Tutto è viola, fucsia o rosa e anche il nome richiama mondi esotici e lontani. Sarà anche che io non avevo nessuna voglia di vedere i piedi di questa signora e non riuscivo a smettere di fissare i pezzettini di unghia e pelle che cadevano sul pavimento a pochi passi da me. Brrrr.
Passiamo ora alla questione più spinosa. Ma un'estetista potrà mai uscire con una delle sue clienti o uno dei suoi clienti (sia mai che faccia delle discriminazioni)? Insomma dopo aver visto una persona nel suo stato più impresentabile ti potrebbe mai e poi mai venir voglia di andarci a letto? Io credo proprio di no. Detto ciò non proverò nemmeno a flirtare con la Viviana.
In realtà penso che valga pure la proprietà biunivoca. Appena vieni a sapere che una fa l'estetista non ti ci viene proprio voglia di uscirci, almeno se sei una donna. Cioè staresti lì a preoccuparti dello stato delle tue mani, dei piedi, delle gambe, delle sopracciglia. Meglio desistere.




lunedì 28 novembre 2011

Credere nel cambiamento.

Sventuratamente ho cliccato sulla nuova visualizzazione di blogger, ed è stata la fine.
Sono quei piccoli cambiamenti che mi destabilizzano. Va bene se cade il governo, va bene se trasloco, va bene pure un taglio drastico di capelli ma una nuova visualizzazione no.
Quando skype mi chiede di scaricare la nuova versione rimando almeno per una settimana. Grazie a Dio hanno inventato il pulsante "Salta". Un pulsante che mi piace particolarmente perché mi sembra pure di bruciare qualche caloria. Salta oggi, salta domani e mi sento esentata dall'andare a correre. In fondo ho saltato così tanto...
L'ultimo aggiornamento di facebook lo devo ancora digerire da mesi. E rimpiango di non poter tornare indietro. Mi sento un po' come mia nonna, quando salivamo in macchina e andavamo giusto due passi più in là, fuori dal paese. Era sempre tutto nuovo. Nuove le case, nuove le strade. Anche il centro storico, anche le mura medievali, era tutto cambiato.
Ora avrei una scusa per non scrivere più e liberarmi anche di questo blog. Ma non succederà, perché la fiducia nello spirito di adattamento è diventata una delle mie convinzioni più grandi. Ci si può adattare a tutto, anche senza crederci veramente.
E se io sono riuscita a non mangiare carne e prosciutti per un anno figuriamoci quali grandi metamorfosi potrà affrontare l'umanità. Ci credo.

domenica 27 novembre 2011

Bergson, il tempo e la più grande delle stronze

Non riesco a scrivere quando c'è qualcun altro nella stessa stanza. A rovinare la mia solitudine c'è pure il dolby surround del mio vicino e i gorgheggi delle sue cantanti pop. Figuriamoci se riesco a concentrarmi su Bergson e la soggettività del tempo.
A dire il vero anche nel silenzio più assoluto non saprei dire due parole in più, ma potrei leggermi la voce di Wikipedia. Tutto ciò che so di Bergson ricordo di averlo appreso a una lezione di letteratura inglese al liceo. Forse in quanto francese non avrebbe gradito questo paradosso.
Stamattina, quando mi hai detto "mi fai schifo", ho capito cosa voleva dire il buon Henry.
Sei anni sono passati in un secondo.
La seconda scoperta che ho fatto – e non so se Bergson fosse arrivato anche a questa, devo documentarmi, altrimenti la brevetto... – è che la memoria è la più grande delle stronze.
Sì perché ora faccio fatica a ricordare come facevamo a essere felici. Non mi ricordo nemmeno quando abbiamo smesso di baciarci per strada – perché non eravamo più delle adolescenti o forse perché non avevamo più nulla da mostrare – o quando ho smesso di immaginarmi come saremmo state tra cinquant'anni.
Ho piegato il tempo come i foglietti degli origami, passando l'unghia del pollice per ripassare la piega. Le mie doti di veggente si sono ridotte. Da 50 anni siamo passati a 5, poi a 2. Dagli anni ai mesi e alle settimane. Arrivare ai giorni è stato un attimo. E il futuro ora sono solo i prossimi 5 minuti. Quante volte proveremo ancora a fare pace? Vengo lì e ci provo un'altra volta?
Sono quasi le sette e già non vedo l'ora che arrivi domani così mancheranno solo ventiquattrore a dopodomani. Avanti così.

giovedì 24 novembre 2011

Il corso d'inglese

Il giovedì sera è il maledetto giorno del corso d'inglese. Dalle otto alle dieci.
Non potendo scegliere un corso profescional, perché non ho così tanti denari da investire nel mio futuro, mi sono iscritta a quelli organizzati dal comune, a cui per altro è impossibile accedere.
Quindi prima faccio il test, poi entro in lista d'attesa perché sono tutti al completo. Questo mi permette di passare l'estate a sperare e anche le prime settimane di settembre.
All'improvviso, quando a Milano c'erano ancora 27 gradi nonostante non fosse più estate, ricevo la chiamata che accolgo con lo stesso entusiasmo che se mi avesse chiamato il grande signore Iddio in persona.
Mi hanno preso! Ottavo livello. Ora tra me e la regina Elisabetta ci sono solo due piani di scale. Se alzo la testa posso vedere che biancheria stende sul balcone. E se non mette bene le mollette posso anche tenermi una delle sue calze. Chissà se a lei cadono i panni.
Compro il quadernino. Righe o quadri? Pensando che se si trattasse di una camicia preferirei i quadri ho scelto le righe. E vado, con lo zainetto in spalla e l'astuccio delle formiche, quello delle superiori.
Scelgo come vicina di banco quella più defilata ma non in ultima fila, quella che potrebbe avere più o meno la mia età. Chi se ne frega se sembra un'animatrice del grest e se ascolta le omelie papali. Dietro di me si nasconde l'impiegata muta. Davanti a me la settantenne infame. Quella che l'inglese lo sa meglio di tutti solo che le servono tutte le due ore di lezione per dirci che non è sposata. Scandisce una parola dopo l'altra e si ferma per inserire nel discoro nevertheless. Ogni volta che qualcuno sbaglia la pronuncia o la sintassi le si forma una nuova ruga sulla faccia. Entro Natale assomiglierà alla cordigliera delle Ande vista da satellite.
Poi c'è il poliziotto napoletano che torna giù tutti i fine settimana, il nero brasiliano con tanto cuore amore ed energia, il torinese si salva. Gli altri no. La professoressabiondoplatino mette solo gonne senza calze, forse ci vede magri e vuole darci in pasto le sue coscione lardose. Enjoy!
Il giovedì sera torna ogni fottuto giovedì e parliamo, perché il corso sarebbe di conversazione ma nessuno parla. Allora io ci provo a parlare, ma non so che dire perché non ho niente da dire né sulle conversazioni soddisfacenti, né su Tony Blair e nemmeno sul mio viaggio in India, visto che non l'ho mai fatto.
Allora fingo di essere un'attrice famosa Rossella Sforza e ho girato con Tarantino, faccio anche teatro e sono di Roma. Mi sono pure fatta Brad Pitt, ma non ditelo all'Angelina perché lei non lo sa. Fatemi il favore. Poi arrivano le dieci e me ne vado a casa perché poi dove cazzo voglio andare.

mercoledì 23 novembre 2011

Come in un armadio

Ora me ne vorrei proprio stare al buio. Zitta. Come da bambina quando sognavo di vivere in un armadio. Un armadio alto pieno di scomparti. Buio, lungo e contorto.
Senza campanello perché non mi avrebbe cercato nessuno.
Invece sto qui, perché avrei da fare e solo il fatto di stare qui fa sempre che io lo stia facendo.
Stare davanti al portatile a battere tasti. È questo che dovrei fare ed è questo che sto facendo, no? Però qui continuano a parlare e allora io alzo la musica, la musica che non voglio ascoltare.
Perché non c'è niente che voglio ascoltare.
Non voglio tornare a casa, non voglio ascoltarti dire che qualcosa non va, perché non è una cosa bella da dire e poi già la so.
Io non voglio proprio tornare a casa perché non c'è il buio, non c'è il silenzio e non c'è nemmeno il vuoto di quell'armadio. Io la casa la voglio così. Vuota. Una casa dove non si mangia, dove non si piscia, dove si fa fatica pure a dormire. È una casa dove stare e basta.
E non voglio stare nemmeno in ufficio. E non voglio stare nemmeno con lei – pensi questo vero? Sbagli, anche questo mi fa paura. Non voglio stare da un'altra parte, oggi non voglio stare e basta.

Ai quarantenni non dare del lei.

Il vicino non prese bene le mie parole e si inalberò.

"Cazzo non sono mica un rompicoglioni io. E poi mi hai parlato in modo scortese".

Non avrei dovuto dargli del lei, si sente ancora giovane.

lunedì 21 novembre 2011

Il primo bacio

A trent'anni si limona di brutto. Io non ci credevo invece è così. O almeno alcuni amici lo fanno tutti i venerdì sera e io continuo a non capirne il senso.
Sarà che per me limonare è sempre stata un'espressione strana. Era una di quelle parole che s'imparano alle scuole medie e che non si riescono a visualizzare.
La prima volta che mi hanno detto "ma lo sai che hanno limonato!" ho annuito sconvolta – perché avevo capito che quella frase doveva destare stupore – mentre immaginavo due persone e un limone. Embè? Non succedeva niente, al massimo la mia fervida fantasia arrivava a vedere i miei compagni mentre preparavano una bella torta, da dividersi a merenda.
Poi qualcuno me l'ha spiegato. Allora si è aperto tutto questo universo di lingue che s'incontrano e s'intrecciano. Un universo reso ancora più mistico dalla lettura dei Cioè e dei Top Girl durante la ricreazione. Altro che Tutto Musica e Diabolik, ero proprio indietro.
Cavoli era tutto molto complicato. Senso orario, senso antiorario, solleticare i denti. E la caramella da passare nella bocca del tuo lui era solo una delle tante variazioni, come se al momento del mio primo bacio avessi già bisogno di combattere la monotonia.
Quante cose c'erano da sapere, era incredibile come avessi potuto sottovalutarle. Ma per fortuna i giornaletti mi avevano salvato per tempo. Poteva ancora essere un momento magico, anche per me.
C'erano delle istruzioni da seguire, bastava programmare, pianificare e arrivare preparati. Proprio come alle lezioni di storia. O forse più come alla campestre dove basta allenarsi e correre. Stando così le cose non c'era da perdere tempo. Ancora però non sapevo come trovare compagni di allenamento.
Decisi che ne bastava uno, così i miglioramenti sarebbe stati anche più visibili e mi dedicai totalmente ad approcciarlo. In realtà ad approcciarla, perché tutte le mie attenzioni si rivolsero verso la vasca da bagno.
Erano dei baci un pò freddi – come la ghisa – ma non si può dire che lei si tirasse indietro. Anzi ero io a dover dire basta.
E poi ci si vedeva spesso, d'estate tutti i giorni, e gli incontri non erano per nulla difficili da organizzare.
Non so quanto mi sia servito, qualche errore l'ho commesso di sicuro.
Per esempio nessuno mi aveva detto se potevo sputare per terra appena inforcata la bici per tornarmene a casa e quindi ho ritenuto di poterlo fare. Ma ancora non ne sono sicura. Forse non si fa.

sabato 19 novembre 2011

Cin.

Venerdì ho guardato che eventi avrebbe offerto la mia città natale, in vista del rientro in patria previsto per il weekend.
Ben presto il baratro si è presentato davanti ai miei occhi in tutta la sua immensa vacuità. Non c'era un cazzo da vedere, un cazzo da fare, né un cazzo da sentire.
Solo un po' di nebbia per darti l'impressione che magari sei tu a essere confuso.
In più, ormai ho imparato che qui gli amici se li vuoi vedere li devi prenotare per tempo, per cui mi apprestavo con disillusione ad affrontare un finesettimana di sofferenze familiari e compere compensative.
Dopo una mattinata di shopping infruttuoso il mio triste destino si è palesato nel pomeriggio.
Breve visita all'amico di famiglia.
- "Vuoi un caffè?"
- "Grazie".
- "Come va a Milano?"
- "Bene".
- "è caotica Milano".
- "Sì".
- "C'è la nebbia a Milano".
- "Sì".

Poi l'amica di famiglia.
- "Vuoi un caffè?"
- "Grazie".
- "Come va a Milano?"
- "Bene".
- "è caotica Milano".
- "Sì".
- "C'è la nebbia a Milano".
- "Sì".

Alle cinque e mezza la giornata mi sembrava già finita, come un po' la vita del resto, peccato che con i cinque caffè che avevo in corpo sarei rimasta sveglia ad oltranza a contemplare i miei nontraguardi. Stavo quasi per andare a comprarmi i popcorn.
Poi è bastata una telefonata e il richiamo dello spritz per riappacificarmi con la mia città. Due chiacchiere, sentir parlare di gente di cui ricordo la faccia e che forse ancora mi ricorda nella bellezza dei miei diciottanni. Anzi magari ora ho anche acquistato un fascino esotico.
Ma soprattutto ho offerto da bere. "Ragazze offro io".
Tiro fuori la banconota da 50, ancora stirata dal bancomat, e mi ritrovo a pagare dieci euro per quattro spritz e una birra.
Ora capisco perché il Veneto è così cattolico, perché qui Dio esiste davvero. Grazie Signore. Non ci sarà un cazzo da fare, ma ci sono gli spritz a due euro.
Ed ecco che improvvisamente riesco a vedere un roseo domani davanti a me, un domani di allegrezza spensierata - già perché non la puoi chiamare allegria.
Sono da poco passate le sette e mi sembra il momento perfetto per brindare al mio futuro. Cin. Quant'è buono il prosecco.

La crisi.

Sono appena tornata. Ciao mamma. Ciao papà.
Il gatto mi accoglie con più entusiasmo del solito, si lascia anche accarezzare.
Non mangio, ho già mangiato. È tutta la settimana che mangio minestre e sapere che mi hai preparato il minestrone non può che farmi venire un appetito atavico.
No, ho detto che non mangio. Neanche il mandarancio, no.
Ehi "Decamerone", ehi "Tutte le poesie di Garcia Lorca" ed ehi anche a te libro di Will Self dimenticato supino sulla libreria. I miei omaggi a voi tutti, anche a quelli seppelliti dietro le antine di vetro. Preso polvere questo mese?
Com'è cameretta dell'infanzia? Dico anche a te letto a soppalco blu... Felice di constatare che tutto sia rimasto uguale.
Non mettere in tasca il telefono, mettilo via ora che sei qui. Hai la schiena fuori.
Sì. Sì. Sì, parliamo.
Mamma dice: "Forse questa crisi finirà tra dieci anni. Bè, ventisei... avrai trentasei anni!"- improvvisamente mia madre ha imparato la matematica.
E io cosa le dico? "Vaffanculo". Ma per questo forse aspettiamo domani.

Le coppie si amano.

Qui in treno è pieno di coppie che si amano. Stanno seduti uno di fianco all'altro.
Gli inglesi che ridono e leggendo libri presi in biblioteca non vedono i loro difetti, la coppia che non arriva a ventiquattro anni, perché ancora ascoltano la musica insieme. La stessa musica, a lei l'auricolare destro, a lui il sinistro, come in gita scolastica. Yeah yeah.
E poi c'è la ragazza che dorme sulla spalla di lui, coperta dalla sua giacca e con i piedi appoggiati sul trolley.
Io guardo fuori dal finestrino, c'è nebbia, siamo quasi a Vicenza.

venerdì 18 novembre 2011

Delle cose che ti vorrei dire.

Vorrei dirti "prendiamo una birra?" anche se poi prenderei sicuramente un bicchiere di rosso, ma è per dire. Se già ti dicessi questo mi sentirei meglio, certo solo se tu rispondessi di sì.
Poi non sono sicura di cosa ti vorrei dire, però potrei imparare che vino ti piace. E questo sarebbe comunque qualcosa, saprei finalmente qualcosa di te.
Io per esempio non sempre riesco a trovare una risposta così su due piedi. Certo se come stasera ci fossero tre vini cileni, uno argentino, un merlot e un lagrein tirolesi, bè la risposta sarebbe facile da trovare. Altrimenti farei la solita figura della donna che ha bisogno dell'uomo che le consigli quale prendere. "Forse non lo vuoi forte, vero?".
No, tu credo risponderesti, magari risponderesti a caso, ma non gli daresti questa soddisfazione. Tu li odi gli stereotipi.
Di nuovo non so che ti direi, forse ti chiederei perché non ti ho nemmeno notato per quattro mesi. Ma tu che ne sai?
Non ricordo nemmeno se ti invitavo a pranzo con sufficienza, se mi sentivo minacciata o se semplicemente ero troppo occupata da quello che succedeva a me.
E poi magari dirai pure tu qualcosa, no?
Ma in fondo io che ti ho detto? È che in questo momento non mi sento proprio brillante, mi sembra di aver riposto il mio fascino e la mia dialettica con i vestiti estivi nell'ultimo cambio dell'armadio. Chissà magari ad aprile mi ritroverò fresca e ancora ventiseienne. Chissà.
In fondo ti vorrei solo dire che sono così. Ma mi sa che già lo sai e che non te ne frega granché.

Meno tre. Meno due. Meno.

Il conto alla rovescia è così anni Novanta.

giovedì 17 novembre 2011

Però, ormai, magari.

Spesso capita di ripetere delle parole. Quando ero alle elementari era il momento degli avverbi in -mente, in particolare praticamente. Era il momento in cui mi sentivo un po' scienziata e tentavo di spiegare l'universo, di trasformare tutto in leggi empiriche.
Stasera è la serata dei Però, degli Ormai e dei magari. In quest'ordine per altro.
Ai posteri la sentenza.

Il risotto è una frontiera.

In casa mia i risotti li ha sempre fatti mio padre. L'uomo che non sa cucinarsi una pastasciutta sa fare degli ottimi risotti. La domenica a pranzo, perché così c'è tutto il tempo di pelare, tagliare, rosolare e mescolare.
Il risotto di patate è il suo sempreverde, perché è un must di tutte le stagioni, tanto le patate ci sono sempre. Stanno lì nel cassetto sotto il lavabo, in compagnia delle cipolle.
Io, intanto, assoggio il mio di risotto, con piccole forchettate a distanza di dieci secondi perché forse ora è cotto. Ma forse no, manca un po'. Ma forse ora è cotto. Sì. No, alcuni chicchi sono ancora duri. Ecco ora sarà cotto. Un'altra forchettata. Sì, direi che potrebbe essere cotto. È cotto. Sì, è davvero cotto.
Mentre succede tutto questo mi domando quanti secondi separino il poco cotto dallo scotto. Ma per stasera non mi è dato di saperlo.
Mio padre cucina sempre il risotto per noi tre e mi ha insegnato a regolarmi sulle porzioni con la tazzina. Una a testa per i risotti, una e mezza per il riso asciutto.
Ma ora che non sto più a casa anche quest'unità di misura è cambiata. Ora io misuro con i "bicchieri da ombre", quelli che ormai non trovi più nemmeno al bar del patronato e che, infatti, anche a casa mia non servono a un cazzo.
Lui adora il risotto, ne mangia due porzioni e spazzola anche la pentola, è il suo piatto preferito. Non ci mette il burro, non ci mette il vino. Solo soffritto, riso, l'ingrediente che connoterà il piatto e un po' di parmigiano. That's it.
Lo adora, però non se l'è mai cucinato solo per sé, come mia nonna del resto. Era arrivata a dire di non amare il risotto, solo perché non aveva voglia di cucinarselo.
Non è decisamente una cosa che ti cucini per te e basta. Il risotto ha bisogno di essere condiviso, perché ci vuole cura per non farlo attaccare, ci vuole pazienza per stare in piedi lì davanti ai fornelli e ci vuole tempo.
Questa sera anch'io mi sono fatta il risotto, vogliamo per un attimo parlare di quanto ti senti regina della casa mentre lo prepari? Ti stai davvero preparando un risotto, mica una stupida pasta o un'insalata, un risotto. Per un momento risale anche l'autostima. Però sapevi benissimo che stasera il tuo risotto te lo saresti mangiato solo tu. Ti sei detta "buon appetito" o hai dimenticato le buone maniere?
Non hai nemmeno dovuto preparare la tavola, perché per quel che ti riguardava era già pronta così. Se non avessi deciso di berti del vino, non avresti nemmeno preso il bicchiere. Quindi la tua era una deliberata scelta di tristezza. Perché riesci a immaginarsi qualcosa di più deprimente che preparare un risotto per una sola persona? Anche al ristorante sui menù scrivono sempre "min. due persone". Io non ci riesco. In fondo ci avevi provato a ingannarti. Hai fatto due porzioni. Una per te, per stasera, e una per la tua schiscia, da mangiare domani, riscaldata, al lavoro. Che schifo.
Però non puoi dire che sia venuto male, la zucca lo sapevi già che era buona.
E intanto tra una riga e l'altra hai quasi finito il piatto.
Ferma un attimo perché guardandomi dalla seconda persona singolare l'ho trovata la riposta: più deprimente di prepararsi il risotto solo per sé c'è mangiare il risotto che ci si è preparati (solo per sé) con il cucchiaio. È una frontiera, uno spartiacque. Ora non ti rimane che riempirti un altro bicchiere, scolarlo e poi ruttare. Ma non sono sicura che basterà quel rutto a farti digerire.

Mia nonna mangia sempre meno.

Mia nonna mangia sempre meno. Dal piatto da portata siamo passati a quello da dolce, tra poco le serviremo da mangiare nella cucina delle bambole.