giovedì 26 gennaio 2012

Provo ad andare a capo, invece faccio rima.

Una poesia è più vergognosa da mostrare.
Eppure non è più personale
di un lungo racconto o di una pagina di giornale.
Sarà che il senso è disseminato
in tutti quegli a capo:
niente capita a caso,
e devi sapere dove fermarti a tirare fiato.

Le pause per respirare ci sono sempre,
così ti accorgi che è una poesia d'amore
solo se nonostante le virgole i punti e gli a capo
alla fine ti manca il fiato.

Provo ad andare a capo.

Voglio scrivere una poesia
ma non succede da anni.
Temo che con la pigrizia
il muscolo della poesia si sia troppo contratto
e ora si strappi.

A vent'anni sapevo ancora andare a capo
e non mettere i punti.
Poi ho iniziato a sistemare una
parola
dietro
l'altra,
perché sembravano avere più senso,
o meglio,
averne uno solo.
Andavano tutte a costruire quella lunga riga dritta, la mia vita.
E poi punto. Punto. Punto.
Anche dopo una sola parola.
Forse era solo una scorciatoia.

Ora vado a capo,
di nuovo,
e so che al prossimo a capo, ci sei
tu.

venerdì 20 gennaio 2012

Siamo i surgelati che mangiamo.

Penso alla somiglianza che c'è tra me e i cubetti surgelati surgelati di foglie di spinaci.
Ma c'è somiglianza poi?

Carote – tasto numero 42

Gambe incrociate sopra la sedia, la tovaglia di cerata a fiori blu. Il coltello sopra al piatto. Ho finito la cena. La vellutata era pure poca, perché con i surgelati non mi regolo, non ne ho mangiati quasi mai.
Sorseggio la birra rossa che ho aperto senza averne davvero voglia. Quella che prendevo a sedici anni, non che me li voglia ricordare, i miei sedici anni. Stefano mi ha detto che a luglio si sposa. "Congratulazioni Stefano!" e pacche sulla spalla.
Mi sono trascinata la spesa a casa, arrancando. Poteva essere anche mezzanotte, invece erano solo le otto passate. Tra parentesi Dio benedica il Carrefour aperto fino alle 22.
La stanchezza mi ha sopraffatto e io non sono riuscita a imbustarla e a pesarla sulla bilancia con tutti i tastini numerati fino a 99, anche perché non avrei saputo a che prezzo pagarla. Per non sbagliarmi nel prezzare le verdure ho preso tutto: carote, cipolle e patate. Giusto perché avevano i codici in successione. 42, 43, 44. Carico il carrello.
Non me ne frega niente. Se non ho trovato la farina, se ho dimenticato le uova, se il vino fara cagare e anche se non riesco a trovare le parole giuste.
Quando ho scoperto che abiti al quinto piano ci sono rimasta male, perché non me l'ero immaginato minimamente. Anzi pensavo che lì non ci fossero nemmeno case di cinque piani. Così mi sono chiesta chissà cosa si vede dalle tue finestre. Io non c'ho mai abitato al quinto piano, il massimo è stato il secondo. Non m'immagino nemmeno come ci si senta, anche se poi mi sa che ti senti per terra tanto quanto quelli del primo piano o del cinquantaduesimo.
Mi sono anche domandata quante altre cose mi sono immaginata sbagliate. Però non te le chiedo.
Non ti chiedo niente perché non sono capace. Non ti chiedo niente perché ho paura, perché mi hai detto così. Non ti chiedo niente, ma tu dimmi quello che vuoi.
E vorrei scrivere ancora, magari di te, magari di niente però così rovino la chiusa. Ma me ne fotto. Non c'ho voglia nemmeno di farmi il bagno ma sento già la vasca che si riempie. Sono io.

domenica 15 gennaio 2012

Non è normale.

Sei seduta al tavolo di un bar, uno non troppo bello né troppo brutto, un bar.
Ordini un tè e capisci che forse è meno bello di quanto sembri perché la scelta è tra limone o senza. Anche questa volta ti berrai l'English breakfast, anche se sono quasi le sei di pomeriggio e la colazione è passata da un pezzo. Ma ti piace così. Un tè è un tè, punto.
Poi te lo portano e ti portano anche delle pastine, una a testa. E ti spaventi in modo manifesto, ti preoccupi perché non sai cos'è e soprattutto non l'avevi chiesta.
Ti rassicurano "sono buone, le facciamo noi". Allora la mortificazione è doppia perché non solo non hai per niente fame – stai ancora digerendo l'omelette con la pancetta di due ore prima – ma perché non sei più capace di pensare che qualcosa arrivi senza chiedere, senza pregare.
Parli, ridi, le paste stanno lì un po' antiestetiche. Forse c'è dell'uvetta, forse anche delle prugne. Forse. Sai che non le mangerai, allora non le tocchi. Speri che questa fortuna possa capitare a qualcun altro, a uno più affamato o ingordo.
Poi prendi la sua mano e magari ci scappa anche un bacio perché nessuno ti ha mai spiegato se sono cose che si possono fare a tavola o no, e allora a te pare che si possano fare.
La baci. E quando torni col pensiero su quella sedia ti giri e ti stupisci se nessuno vi sta guardando.
La teiera è ormai vuota, il tè nerissimo perché la bustina è rimasta lì e il limone è spolpato da mò. Approfitti di quando si alza per andare a pagare, senza farti notare. Ma i tè sono già stati pagati. Cerchi in tutti i modi di dirgli che no, non li hai pagati e nemmeno lei può averlo fatto perché è rimasta seduta di fronte a te tutto il tempo. Ma il proprietario dice "Erano i due té, quelli del tavolo in fondo no? Sì sì già pagati!"
Allora ringrazi e torni a sederti, in fondo perché insistere. Continui a pensare che ci sia un errore. Uscite salutando, e ti senti un po' come quando al supermercato hai messo l'etichetta champignon sul sacchetto dei funghi porcini, come se avessi appena rubato qualcosa.
Non ci credi che qualcuno possa aver pagato quei té, avervi fatto un piccolo regalo. Uno sconosciuto.
Camminando decidi che è una cosa bella, è uno di quei segni, e allora stamattina la cambierai la lampadina dell'ingresso, quella che ti impedisce di entrare in casa senza buttare giù i vasi ming e le composizioni di fiori secchi, senza invocare la madonna.
Non la sostituisci con una lampadina nuova – perché non l'hai trovata – ne prenderai una dal mobiletto del bagno perché lì è meno utile, perché la vita è così.
Ma va bene comunque perché ora quell'interruttore avrà uno scopo e tu potrai tornare a casa e accendere la luce. Bentornata.

mercoledì 11 gennaio 2012

Allora guardo avanti che con il vento di questi giorni si dovrebbe vedere pure bene.

Succede che non ho voglia di scrivere. Però ho riaperto un libro e ne ho scelti altri dagli scaffali. Alcuni stanno lì da anni ma cambiargli ripiano è già qualcosa. Proust non lo trovo più, sarà destino.
Ora anche io sulla metro posso mettermi a leggere, anche se adesso faccio solo tre fermate. Allora prendo l'autobus, così sono quattro pagine in più, che a volte vuol dire un intero capitolo.
Poi ti telefono la notte – dopo la mezza è proprio notte – e mi piace perché capisco quando ti stai per addormentare. Sì questo l'ho capito subito, non c'è bisogno che tu me lo dica.
E non mi era mai capitato che qualcuno si addormentasse così, con la voce che si fa incomprensibile, lontana. Poi le sillabe si mischiano quasi a caso, infine sussurri. Stai dormendo.
Ti dico buonanotte, ma non lo senti già più.
Succede che vorrei concludere tutte le cose che sedimentano nella testa o nel taccuino da tempo. Perché occupano spazio, inutilmente. Concluderle o buttare via tutto perché forse ormai sa di vecchio. Come le cose che stanno nel mio frigo, che poi se aspetti troppo fanno schifo anche nella ricetta più buona. Forse sono io che sono invecchiata, non sono più quella lì, quindi basta buttiamo perché io lo so che non mi riciclo. Niente raccolta differenziata per me.



martedì 3 gennaio 2012

L'eterno ritorno delle patatine.

Mi vengono su le patatine.
Ho riempito il piatto per non lasciarlo vuoto e poi l'ho svuotato per non lasciarlo pieno. Poi l'ho riempito di nuovo e svuotato un'altra volta, sempre per le stesse ragioni.
E ho messo in bocca per non lasciare la bocca vuota. Un po' di patatine, un po' di parole, poi ancora patatine poi discorsi vuoti portati avanti dall'alcol.
Abbiamo anche riso e ci siamo sentiti vagamente simili, in realtà la serata l'abbiamo riempita come le nostre bocche, tutti e due, perché non volevamo stare da soli. Non era il momento.
Se ripenso a tutte le parole mi vengono su anche loro come le patatine e la salsa guacamole e i tacos e i cubetti di formaggio che poi erano più parallelepipedi e la mortadella tagliata a pezzi ma non abbastanza per separarli e l'insalata il patè d'olive i taralli la pizza e tutto quel ghiaccio che annacquava il mio spritz. Sempre troppo dolce, sempre troppo acqua. Il tutto senza virgole, senza intervalli. Patatina tacos guacamole tacos guacamole patatina patatina.

Non c'ho abbastanza fegato per cambiare ora, mi basta giusto a digerire tutte le schifezze di quest'aperitivo. O forse se veramente credessi di poter stare meglio di così le infilerei due dita in gola per vomitare tutto. È che in fondo non sto così male, era solo lo stomaco sottosopra, era solo una giornata storta. E poi domani è tutto diverso, domani non è così. Ci vediamo domani.

lunedì 2 gennaio 2012

To do or not to do. Andrà così.

Nella lista dei buoni propositi potrei mettere leggere, scrivere, correre, pensare e fare l'amore.
Tutti verbi di movimento. Eh sì, nel nuovo anno c'è bisogno di moto. E di fianco a ognuno potrei aggiungere "di più". Leggere di più, scrivere di più, correre di più, pensare di più e fare l'amore di più. Eh sì, nel nuovo anno c'è bisogno anche di abbondanza.
Guardando la vecchia lista però noto che ho spuntato solo poche voci, allora desisto, quest'anno non la scrivo.
Quest'anno l'unica cosa che voglio davvero è smettere di fare cose che non ho voglia di fare. Domani però suona la sveglia. Credo non ci sia altro da dire.