martedì 29 novembre 2011

Ho tolto i baffi.

Oggi era il giorno dell'estetista. Ma da quando ho fidelizzato con la Viviana questo ha cessato di essere un momento tremendo ed eternamente rinviabile. Perché so che lei non mi farà così male.
In realtà questo era solo il secondo tentativo, quindi aleggiava ancora il dubbio, ma in cuor mio sapevo che sarebbe andata bene. Appena l'ho vista ho capito che lei sarebbe diventata la MIA estetista.
Sì perché non è una di quelle che si stira i capelli, non ha le meches, non è troppo magra e non parla a macchinetta mentre io mostro bellamente le mie nudità più recondite. Anzi ha la tinta un po' strana, sorride e sembra ancora imbarazzarsi del mio imbarazzo. È perfetta. Soprattutto perché non mi fa quasi male.
Quindi oggi mi sono spinta oltre: inguine, ascella e pure baffetti, che conservavo integri da 26 anni, dei baffi fossile. Direi di non aggiungere altro, se non che non ho urlato, non ho pianto e non ho sanguinato eccessivamente.
Ma il post non finisce qui, perché andare dall'estetista mi ha suscitato riflessioni profonde.
Forse perché ho dovuto aspettare un quarto d'ora in una saletta dove una filippina stava facendo la pedicure a una donna incinta di sei mesi. Ma io dico, hai un pesante fardello che ti impedisce di guardare davanti a te – anche se in realtà il tuo futuro a quel punto lo vedi benissimo – e ti preoccupi di non avere pelle superflua sul calcagno del tuo piede destro o che lo smalto sia coprende ma più sul bianco che sul rosa? Mah. Mi sentivo molto a disagio. Sarà che il centro estetico sembra più un centro massaggi. Tutto è viola, fucsia o rosa e anche il nome richiama mondi esotici e lontani. Sarà anche che io non avevo nessuna voglia di vedere i piedi di questa signora e non riuscivo a smettere di fissare i pezzettini di unghia e pelle che cadevano sul pavimento a pochi passi da me. Brrrr.
Passiamo ora alla questione più spinosa. Ma un'estetista potrà mai uscire con una delle sue clienti o uno dei suoi clienti (sia mai che faccia delle discriminazioni)? Insomma dopo aver visto una persona nel suo stato più impresentabile ti potrebbe mai e poi mai venir voglia di andarci a letto? Io credo proprio di no. Detto ciò non proverò nemmeno a flirtare con la Viviana.
In realtà penso che valga pure la proprietà biunivoca. Appena vieni a sapere che una fa l'estetista non ti ci viene proprio voglia di uscirci, almeno se sei una donna. Cioè staresti lì a preoccuparti dello stato delle tue mani, dei piedi, delle gambe, delle sopracciglia. Meglio desistere.




lunedì 28 novembre 2011

Credere nel cambiamento.

Sventuratamente ho cliccato sulla nuova visualizzazione di blogger, ed è stata la fine.
Sono quei piccoli cambiamenti che mi destabilizzano. Va bene se cade il governo, va bene se trasloco, va bene pure un taglio drastico di capelli ma una nuova visualizzazione no.
Quando skype mi chiede di scaricare la nuova versione rimando almeno per una settimana. Grazie a Dio hanno inventato il pulsante "Salta". Un pulsante che mi piace particolarmente perché mi sembra pure di bruciare qualche caloria. Salta oggi, salta domani e mi sento esentata dall'andare a correre. In fondo ho saltato così tanto...
L'ultimo aggiornamento di facebook lo devo ancora digerire da mesi. E rimpiango di non poter tornare indietro. Mi sento un po' come mia nonna, quando salivamo in macchina e andavamo giusto due passi più in là, fuori dal paese. Era sempre tutto nuovo. Nuove le case, nuove le strade. Anche il centro storico, anche le mura medievali, era tutto cambiato.
Ora avrei una scusa per non scrivere più e liberarmi anche di questo blog. Ma non succederà, perché la fiducia nello spirito di adattamento è diventata una delle mie convinzioni più grandi. Ci si può adattare a tutto, anche senza crederci veramente.
E se io sono riuscita a non mangiare carne e prosciutti per un anno figuriamoci quali grandi metamorfosi potrà affrontare l'umanità. Ci credo.

domenica 27 novembre 2011

Bergson, il tempo e la più grande delle stronze

Non riesco a scrivere quando c'è qualcun altro nella stessa stanza. A rovinare la mia solitudine c'è pure il dolby surround del mio vicino e i gorgheggi delle sue cantanti pop. Figuriamoci se riesco a concentrarmi su Bergson e la soggettività del tempo.
A dire il vero anche nel silenzio più assoluto non saprei dire due parole in più, ma potrei leggermi la voce di Wikipedia. Tutto ciò che so di Bergson ricordo di averlo appreso a una lezione di letteratura inglese al liceo. Forse in quanto francese non avrebbe gradito questo paradosso.
Stamattina, quando mi hai detto "mi fai schifo", ho capito cosa voleva dire il buon Henry.
Sei anni sono passati in un secondo.
La seconda scoperta che ho fatto – e non so se Bergson fosse arrivato anche a questa, devo documentarmi, altrimenti la brevetto... – è che la memoria è la più grande delle stronze.
Sì perché ora faccio fatica a ricordare come facevamo a essere felici. Non mi ricordo nemmeno quando abbiamo smesso di baciarci per strada – perché non eravamo più delle adolescenti o forse perché non avevamo più nulla da mostrare – o quando ho smesso di immaginarmi come saremmo state tra cinquant'anni.
Ho piegato il tempo come i foglietti degli origami, passando l'unghia del pollice per ripassare la piega. Le mie doti di veggente si sono ridotte. Da 50 anni siamo passati a 5, poi a 2. Dagli anni ai mesi e alle settimane. Arrivare ai giorni è stato un attimo. E il futuro ora sono solo i prossimi 5 minuti. Quante volte proveremo ancora a fare pace? Vengo lì e ci provo un'altra volta?
Sono quasi le sette e già non vedo l'ora che arrivi domani così mancheranno solo ventiquattrore a dopodomani. Avanti così.

giovedì 24 novembre 2011

Il corso d'inglese

Il giovedì sera è il maledetto giorno del corso d'inglese. Dalle otto alle dieci.
Non potendo scegliere un corso profescional, perché non ho così tanti denari da investire nel mio futuro, mi sono iscritta a quelli organizzati dal comune, a cui per altro è impossibile accedere.
Quindi prima faccio il test, poi entro in lista d'attesa perché sono tutti al completo. Questo mi permette di passare l'estate a sperare e anche le prime settimane di settembre.
All'improvviso, quando a Milano c'erano ancora 27 gradi nonostante non fosse più estate, ricevo la chiamata che accolgo con lo stesso entusiasmo che se mi avesse chiamato il grande signore Iddio in persona.
Mi hanno preso! Ottavo livello. Ora tra me e la regina Elisabetta ci sono solo due piani di scale. Se alzo la testa posso vedere che biancheria stende sul balcone. E se non mette bene le mollette posso anche tenermi una delle sue calze. Chissà se a lei cadono i panni.
Compro il quadernino. Righe o quadri? Pensando che se si trattasse di una camicia preferirei i quadri ho scelto le righe. E vado, con lo zainetto in spalla e l'astuccio delle formiche, quello delle superiori.
Scelgo come vicina di banco quella più defilata ma non in ultima fila, quella che potrebbe avere più o meno la mia età. Chi se ne frega se sembra un'animatrice del grest e se ascolta le omelie papali. Dietro di me si nasconde l'impiegata muta. Davanti a me la settantenne infame. Quella che l'inglese lo sa meglio di tutti solo che le servono tutte le due ore di lezione per dirci che non è sposata. Scandisce una parola dopo l'altra e si ferma per inserire nel discoro nevertheless. Ogni volta che qualcuno sbaglia la pronuncia o la sintassi le si forma una nuova ruga sulla faccia. Entro Natale assomiglierà alla cordigliera delle Ande vista da satellite.
Poi c'è il poliziotto napoletano che torna giù tutti i fine settimana, il nero brasiliano con tanto cuore amore ed energia, il torinese si salva. Gli altri no. La professoressabiondoplatino mette solo gonne senza calze, forse ci vede magri e vuole darci in pasto le sue coscione lardose. Enjoy!
Il giovedì sera torna ogni fottuto giovedì e parliamo, perché il corso sarebbe di conversazione ma nessuno parla. Allora io ci provo a parlare, ma non so che dire perché non ho niente da dire né sulle conversazioni soddisfacenti, né su Tony Blair e nemmeno sul mio viaggio in India, visto che non l'ho mai fatto.
Allora fingo di essere un'attrice famosa Rossella Sforza e ho girato con Tarantino, faccio anche teatro e sono di Roma. Mi sono pure fatta Brad Pitt, ma non ditelo all'Angelina perché lei non lo sa. Fatemi il favore. Poi arrivano le dieci e me ne vado a casa perché poi dove cazzo voglio andare.

mercoledì 23 novembre 2011

Come in un armadio

Ora me ne vorrei proprio stare al buio. Zitta. Come da bambina quando sognavo di vivere in un armadio. Un armadio alto pieno di scomparti. Buio, lungo e contorto.
Senza campanello perché non mi avrebbe cercato nessuno.
Invece sto qui, perché avrei da fare e solo il fatto di stare qui fa sempre che io lo stia facendo.
Stare davanti al portatile a battere tasti. È questo che dovrei fare ed è questo che sto facendo, no? Però qui continuano a parlare e allora io alzo la musica, la musica che non voglio ascoltare.
Perché non c'è niente che voglio ascoltare.
Non voglio tornare a casa, non voglio ascoltarti dire che qualcosa non va, perché non è una cosa bella da dire e poi già la so.
Io non voglio proprio tornare a casa perché non c'è il buio, non c'è il silenzio e non c'è nemmeno il vuoto di quell'armadio. Io la casa la voglio così. Vuota. Una casa dove non si mangia, dove non si piscia, dove si fa fatica pure a dormire. È una casa dove stare e basta.
E non voglio stare nemmeno in ufficio. E non voglio stare nemmeno con lei – pensi questo vero? Sbagli, anche questo mi fa paura. Non voglio stare da un'altra parte, oggi non voglio stare e basta.

Ai quarantenni non dare del lei.

Il vicino non prese bene le mie parole e si inalberò.

"Cazzo non sono mica un rompicoglioni io. E poi mi hai parlato in modo scortese".

Non avrei dovuto dargli del lei, si sente ancora giovane.

lunedì 21 novembre 2011

Il primo bacio

A trent'anni si limona di brutto. Io non ci credevo invece è così. O almeno alcuni amici lo fanno tutti i venerdì sera e io continuo a non capirne il senso.
Sarà che per me limonare è sempre stata un'espressione strana. Era una di quelle parole che s'imparano alle scuole medie e che non si riescono a visualizzare.
La prima volta che mi hanno detto "ma lo sai che hanno limonato!" ho annuito sconvolta – perché avevo capito che quella frase doveva destare stupore – mentre immaginavo due persone e un limone. Embè? Non succedeva niente, al massimo la mia fervida fantasia arrivava a vedere i miei compagni mentre preparavano una bella torta, da dividersi a merenda.
Poi qualcuno me l'ha spiegato. Allora si è aperto tutto questo universo di lingue che s'incontrano e s'intrecciano. Un universo reso ancora più mistico dalla lettura dei Cioè e dei Top Girl durante la ricreazione. Altro che Tutto Musica e Diabolik, ero proprio indietro.
Cavoli era tutto molto complicato. Senso orario, senso antiorario, solleticare i denti. E la caramella da passare nella bocca del tuo lui era solo una delle tante variazioni, come se al momento del mio primo bacio avessi già bisogno di combattere la monotonia.
Quante cose c'erano da sapere, era incredibile come avessi potuto sottovalutarle. Ma per fortuna i giornaletti mi avevano salvato per tempo. Poteva ancora essere un momento magico, anche per me.
C'erano delle istruzioni da seguire, bastava programmare, pianificare e arrivare preparati. Proprio come alle lezioni di storia. O forse più come alla campestre dove basta allenarsi e correre. Stando così le cose non c'era da perdere tempo. Ancora però non sapevo come trovare compagni di allenamento.
Decisi che ne bastava uno, così i miglioramenti sarebbe stati anche più visibili e mi dedicai totalmente ad approcciarlo. In realtà ad approcciarla, perché tutte le mie attenzioni si rivolsero verso la vasca da bagno.
Erano dei baci un pò freddi – come la ghisa – ma non si può dire che lei si tirasse indietro. Anzi ero io a dover dire basta.
E poi ci si vedeva spesso, d'estate tutti i giorni, e gli incontri non erano per nulla difficili da organizzare.
Non so quanto mi sia servito, qualche errore l'ho commesso di sicuro.
Per esempio nessuno mi aveva detto se potevo sputare per terra appena inforcata la bici per tornarmene a casa e quindi ho ritenuto di poterlo fare. Ma ancora non ne sono sicura. Forse non si fa.

sabato 19 novembre 2011

Cin.

Venerdì ho guardato che eventi avrebbe offerto la mia città natale, in vista del rientro in patria previsto per il weekend.
Ben presto il baratro si è presentato davanti ai miei occhi in tutta la sua immensa vacuità. Non c'era un cazzo da vedere, un cazzo da fare, né un cazzo da sentire.
Solo un po' di nebbia per darti l'impressione che magari sei tu a essere confuso.
In più, ormai ho imparato che qui gli amici se li vuoi vedere li devi prenotare per tempo, per cui mi apprestavo con disillusione ad affrontare un finesettimana di sofferenze familiari e compere compensative.
Dopo una mattinata di shopping infruttuoso il mio triste destino si è palesato nel pomeriggio.
Breve visita all'amico di famiglia.
- "Vuoi un caffè?"
- "Grazie".
- "Come va a Milano?"
- "Bene".
- "è caotica Milano".
- "Sì".
- "C'è la nebbia a Milano".
- "Sì".

Poi l'amica di famiglia.
- "Vuoi un caffè?"
- "Grazie".
- "Come va a Milano?"
- "Bene".
- "è caotica Milano".
- "Sì".
- "C'è la nebbia a Milano".
- "Sì".

Alle cinque e mezza la giornata mi sembrava già finita, come un po' la vita del resto, peccato che con i cinque caffè che avevo in corpo sarei rimasta sveglia ad oltranza a contemplare i miei nontraguardi. Stavo quasi per andare a comprarmi i popcorn.
Poi è bastata una telefonata e il richiamo dello spritz per riappacificarmi con la mia città. Due chiacchiere, sentir parlare di gente di cui ricordo la faccia e che forse ancora mi ricorda nella bellezza dei miei diciottanni. Anzi magari ora ho anche acquistato un fascino esotico.
Ma soprattutto ho offerto da bere. "Ragazze offro io".
Tiro fuori la banconota da 50, ancora stirata dal bancomat, e mi ritrovo a pagare dieci euro per quattro spritz e una birra.
Ora capisco perché il Veneto è così cattolico, perché qui Dio esiste davvero. Grazie Signore. Non ci sarà un cazzo da fare, ma ci sono gli spritz a due euro.
Ed ecco che improvvisamente riesco a vedere un roseo domani davanti a me, un domani di allegrezza spensierata - già perché non la puoi chiamare allegria.
Sono da poco passate le sette e mi sembra il momento perfetto per brindare al mio futuro. Cin. Quant'è buono il prosecco.

La crisi.

Sono appena tornata. Ciao mamma. Ciao papà.
Il gatto mi accoglie con più entusiasmo del solito, si lascia anche accarezzare.
Non mangio, ho già mangiato. È tutta la settimana che mangio minestre e sapere che mi hai preparato il minestrone non può che farmi venire un appetito atavico.
No, ho detto che non mangio. Neanche il mandarancio, no.
Ehi "Decamerone", ehi "Tutte le poesie di Garcia Lorca" ed ehi anche a te libro di Will Self dimenticato supino sulla libreria. I miei omaggi a voi tutti, anche a quelli seppelliti dietro le antine di vetro. Preso polvere questo mese?
Com'è cameretta dell'infanzia? Dico anche a te letto a soppalco blu... Felice di constatare che tutto sia rimasto uguale.
Non mettere in tasca il telefono, mettilo via ora che sei qui. Hai la schiena fuori.
Sì. Sì. Sì, parliamo.
Mamma dice: "Forse questa crisi finirà tra dieci anni. Bè, ventisei... avrai trentasei anni!"- improvvisamente mia madre ha imparato la matematica.
E io cosa le dico? "Vaffanculo". Ma per questo forse aspettiamo domani.

Le coppie si amano.

Qui in treno è pieno di coppie che si amano. Stanno seduti uno di fianco all'altro.
Gli inglesi che ridono e leggendo libri presi in biblioteca non vedono i loro difetti, la coppia che non arriva a ventiquattro anni, perché ancora ascoltano la musica insieme. La stessa musica, a lei l'auricolare destro, a lui il sinistro, come in gita scolastica. Yeah yeah.
E poi c'è la ragazza che dorme sulla spalla di lui, coperta dalla sua giacca e con i piedi appoggiati sul trolley.
Io guardo fuori dal finestrino, c'è nebbia, siamo quasi a Vicenza.

venerdì 18 novembre 2011

Delle cose che ti vorrei dire.

Vorrei dirti "prendiamo una birra?" anche se poi prenderei sicuramente un bicchiere di rosso, ma è per dire. Se già ti dicessi questo mi sentirei meglio, certo solo se tu rispondessi di sì.
Poi non sono sicura di cosa ti vorrei dire, però potrei imparare che vino ti piace. E questo sarebbe comunque qualcosa, saprei finalmente qualcosa di te.
Io per esempio non sempre riesco a trovare una risposta così su due piedi. Certo se come stasera ci fossero tre vini cileni, uno argentino, un merlot e un lagrein tirolesi, bè la risposta sarebbe facile da trovare. Altrimenti farei la solita figura della donna che ha bisogno dell'uomo che le consigli quale prendere. "Forse non lo vuoi forte, vero?".
No, tu credo risponderesti, magari risponderesti a caso, ma non gli daresti questa soddisfazione. Tu li odi gli stereotipi.
Di nuovo non so che ti direi, forse ti chiederei perché non ti ho nemmeno notato per quattro mesi. Ma tu che ne sai?
Non ricordo nemmeno se ti invitavo a pranzo con sufficienza, se mi sentivo minacciata o se semplicemente ero troppo occupata da quello che succedeva a me.
E poi magari dirai pure tu qualcosa, no?
Ma in fondo io che ti ho detto? È che in questo momento non mi sento proprio brillante, mi sembra di aver riposto il mio fascino e la mia dialettica con i vestiti estivi nell'ultimo cambio dell'armadio. Chissà magari ad aprile mi ritroverò fresca e ancora ventiseienne. Chissà.
In fondo ti vorrei solo dire che sono così. Ma mi sa che già lo sai e che non te ne frega granché.

Meno tre. Meno due. Meno.

Il conto alla rovescia è così anni Novanta.

giovedì 17 novembre 2011

Però, ormai, magari.

Spesso capita di ripetere delle parole. Quando ero alle elementari era il momento degli avverbi in -mente, in particolare praticamente. Era il momento in cui mi sentivo un po' scienziata e tentavo di spiegare l'universo, di trasformare tutto in leggi empiriche.
Stasera è la serata dei Però, degli Ormai e dei magari. In quest'ordine per altro.
Ai posteri la sentenza.

Il risotto è una frontiera.

In casa mia i risotti li ha sempre fatti mio padre. L'uomo che non sa cucinarsi una pastasciutta sa fare degli ottimi risotti. La domenica a pranzo, perché così c'è tutto il tempo di pelare, tagliare, rosolare e mescolare.
Il risotto di patate è il suo sempreverde, perché è un must di tutte le stagioni, tanto le patate ci sono sempre. Stanno lì nel cassetto sotto il lavabo, in compagnia delle cipolle.
Io, intanto, assoggio il mio di risotto, con piccole forchettate a distanza di dieci secondi perché forse ora è cotto. Ma forse no, manca un po'. Ma forse ora è cotto. Sì. No, alcuni chicchi sono ancora duri. Ecco ora sarà cotto. Un'altra forchettata. Sì, direi che potrebbe essere cotto. È cotto. Sì, è davvero cotto.
Mentre succede tutto questo mi domando quanti secondi separino il poco cotto dallo scotto. Ma per stasera non mi è dato di saperlo.
Mio padre cucina sempre il risotto per noi tre e mi ha insegnato a regolarmi sulle porzioni con la tazzina. Una a testa per i risotti, una e mezza per il riso asciutto.
Ma ora che non sto più a casa anche quest'unità di misura è cambiata. Ora io misuro con i "bicchieri da ombre", quelli che ormai non trovi più nemmeno al bar del patronato e che, infatti, anche a casa mia non servono a un cazzo.
Lui adora il risotto, ne mangia due porzioni e spazzola anche la pentola, è il suo piatto preferito. Non ci mette il burro, non ci mette il vino. Solo soffritto, riso, l'ingrediente che connoterà il piatto e un po' di parmigiano. That's it.
Lo adora, però non se l'è mai cucinato solo per sé, come mia nonna del resto. Era arrivata a dire di non amare il risotto, solo perché non aveva voglia di cucinarselo.
Non è decisamente una cosa che ti cucini per te e basta. Il risotto ha bisogno di essere condiviso, perché ci vuole cura per non farlo attaccare, ci vuole pazienza per stare in piedi lì davanti ai fornelli e ci vuole tempo.
Questa sera anch'io mi sono fatta il risotto, vogliamo per un attimo parlare di quanto ti senti regina della casa mentre lo prepari? Ti stai davvero preparando un risotto, mica una stupida pasta o un'insalata, un risotto. Per un momento risale anche l'autostima. Però sapevi benissimo che stasera il tuo risotto te lo saresti mangiato solo tu. Ti sei detta "buon appetito" o hai dimenticato le buone maniere?
Non hai nemmeno dovuto preparare la tavola, perché per quel che ti riguardava era già pronta così. Se non avessi deciso di berti del vino, non avresti nemmeno preso il bicchiere. Quindi la tua era una deliberata scelta di tristezza. Perché riesci a immaginarsi qualcosa di più deprimente che preparare un risotto per una sola persona? Anche al ristorante sui menù scrivono sempre "min. due persone". Io non ci riesco. In fondo ci avevi provato a ingannarti. Hai fatto due porzioni. Una per te, per stasera, e una per la tua schiscia, da mangiare domani, riscaldata, al lavoro. Che schifo.
Però non puoi dire che sia venuto male, la zucca lo sapevi già che era buona.
E intanto tra una riga e l'altra hai quasi finito il piatto.
Ferma un attimo perché guardandomi dalla seconda persona singolare l'ho trovata la riposta: più deprimente di prepararsi il risotto solo per sé c'è mangiare il risotto che ci si è preparati (solo per sé) con il cucchiaio. È una frontiera, uno spartiacque. Ora non ti rimane che riempirti un altro bicchiere, scolarlo e poi ruttare. Ma non sono sicura che basterà quel rutto a farti digerire.

Mia nonna mangia sempre meno.

Mia nonna mangia sempre meno. Dal piatto da portata siamo passati a quello da dolce, tra poco le serviremo da mangiare nella cucina delle bambole.