domenica 27 novembre 2011

Bergson, il tempo e la più grande delle stronze

Non riesco a scrivere quando c'è qualcun altro nella stessa stanza. A rovinare la mia solitudine c'è pure il dolby surround del mio vicino e i gorgheggi delle sue cantanti pop. Figuriamoci se riesco a concentrarmi su Bergson e la soggettività del tempo.
A dire il vero anche nel silenzio più assoluto non saprei dire due parole in più, ma potrei leggermi la voce di Wikipedia. Tutto ciò che so di Bergson ricordo di averlo appreso a una lezione di letteratura inglese al liceo. Forse in quanto francese non avrebbe gradito questo paradosso.
Stamattina, quando mi hai detto "mi fai schifo", ho capito cosa voleva dire il buon Henry.
Sei anni sono passati in un secondo.
La seconda scoperta che ho fatto – e non so se Bergson fosse arrivato anche a questa, devo documentarmi, altrimenti la brevetto... – è che la memoria è la più grande delle stronze.
Sì perché ora faccio fatica a ricordare come facevamo a essere felici. Non mi ricordo nemmeno quando abbiamo smesso di baciarci per strada – perché non eravamo più delle adolescenti o forse perché non avevamo più nulla da mostrare – o quando ho smesso di immaginarmi come saremmo state tra cinquant'anni.
Ho piegato il tempo come i foglietti degli origami, passando l'unghia del pollice per ripassare la piega. Le mie doti di veggente si sono ridotte. Da 50 anni siamo passati a 5, poi a 2. Dagli anni ai mesi e alle settimane. Arrivare ai giorni è stato un attimo. E il futuro ora sono solo i prossimi 5 minuti. Quante volte proveremo ancora a fare pace? Vengo lì e ci provo un'altra volta?
Sono quasi le sette e già non vedo l'ora che arrivi domani così mancheranno solo ventiquattrore a dopodomani. Avanti così.

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